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[RECENSIONE] Shame (Steve McQueen)

Shame è un film che parla di incomunicabilità, solitudine. Il protagonista Brandon è una persona incapace di esprimere i propri sentimenti positivi, come rimedio a questo suo handicap passa tutto il suo tempo, giorno e notte, scopando a destra e a manca, masturbandosi dove capita, si potrebbe tranquillamente dire che per la maggior parte del tempo ragiona col cazzo e non con la testa.

Lo fa perché c’è un vuoto dentro (e fuori) sé che niente e nessuno riesce a colmare, perché ha paura di impegnarsi, di stare al mondo in maniera adulta, perché la chiusura a riccio è molto più facile dell’apertura, la fantasia e molto meglio della realtà. Brandon invece è aperto solo ad ogni tipo di esperienza sessuale, quando però si tratta di fare sul serio, quando sente dentro di sé che la cosa con Marianne (Nicole Beharie) si sta facendo seria -che stanno entrando in gioco i sentimenti e i colori- gli si blocca la cosa che gli riesce meglio, quella in grado di farlo fuggire dal grigiore della realtà.

La versione di New York New York che sua sorella Sissy canta in un locale non solo fa capire in che tipo di film siamo, ci aiuta a comprendere anche il rapporto complicato tra i due: due persone così lontane eppure così vicine nella loro disperazione.

In Shame, secondo lungometraggio di Steve McQueen, non si va ad indagare sulle origini dei loro mali, non ci sono flashback o cose simili, Brandon (Michael Fassbender) e Sissy (Carey Mulligan) sono a loro modo autodistruttivi e incapaci di liberarsi da quelle invisibili catene che li bloccano da una vita.

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