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Deep purple live Firenze 2015 - palco

[SPECIALE] I “Deep Purple” live a Firenze – e noi tra trent’anni?

Una inspiegabile coda all’uscita di Firenze Sud, di quelle che stai fermo mezz’ora e poi parti tutto d’un colpo, ci fa arrivare con un po’ di ritardo su quanto preventivato. Maledizione, sono le 8e30 e dobbiamo ancora cenare, io e Tarp. Fuori dal Mandela Forum di Firenze vediamo del movimento e così, ritirati i biglietti, andiamo in cerca di qualche schifezza per riempirci lo stomaco prima del concerto. Restiamo abbagliati: lì davanti una decina di camion di porchettari formano un ideale “porchettodromo”, una viale del tramonto del panino e della patata, un festival della piastra unta e impiasticciata, in cui l’odore di fritto ti stuzzica e ti stende allo stesso tempo.  I richiami dei venditori fanno il resto.

Deep Purple live Firenze 2015 - il porchettrodomo
Il porchettrodomo a Firenze per il concerto dei Deep Purple

“Due hot dog” diciamo al ragazzo napoletano iperattivo che potrebbe suicidarsi sul posto se per un attimo non avesse da spalmare un po’ di ketchup su quel pane vecchio di tre giorni. “Ragazzi! Ciao ragazzi! Allora allora, cosa metto?” “Tutto”. Che domande.  Tutto alla fine vuol dire crauti, insalata belga, peperoni, maionese e ketchup. La fame per un po’ è placata. Ci buttiamo dentro, giusto il tempo di arraffare due birre Castello alla spina e raggiungiamo la platea del palazzetto. Fantastichiamo sulla possibilità di requisire la spina e portarcela dietro, ma poi cominciamo a guardarci intorno… e tutto il resto svanisce. Siamo circondati infatti dal pubblico più variegato che si sia mai presentato a un concerto di questo genere. È un calderone improbabile di diciottenni sbarbati in canottiera e settantenni nostalgici in camicia e maglioncino. In più c’è una percentuale di presenza femminile altissima, completamente inspiegabile. Sarà senz’altro una serata interessante.

Ci sistemiamo in mezzo alla platea, il concerto è imminente, i fanatici delle prime file si stanno già agitando. Ho un presentimento e mi volto all’improvviso. Dietro di me c’è l’esemplare più ricercato dell’intera platea: sessanta, forse sessantacinque anni, rasato, jeans e camicia un po’ trasandati, un giubbotto rosso da mezza stagione. Fermo, immobile, lo sguardo fisso verso il palco che è ancora deserto. Lo segnalo a Tarp che lo ribattezza subito “Braccio di Ferro” per una certa espressione arcigna del volto. È da solo. Ha in mano un sacchetto della Coop semivuoto. Ci sbizzarriamo nelle ipotesi: che ci sarà dentro? Un etto di marijuana? Un etto di prosciutto tagliato fine? Oppure due calzini di lana, non si sa mai che rinfreschi? Non c’è modo di saperlo. Intanto la folla si agita e i Deep Purple salgono sul palco.

L’inizio del concerto è di grande impatto: i Deep Purple sparano subito tre classici senza lasciarci tempo di prendere fiato. Dopo un inizio incerto, la voce di Ian Gillan risuona limpida e cristallina. Siamo di colpo dentro la storia di quel rock che, anche grazie alla magia dell’organo Hammond che si fonde alla perfezione col resto del suono, vive orgoglioso da ormai quasi cinquanta anni.  Per tutto il concerto ci sarà una lieve discrepanza tra la musica esplosa dalle casse e la presenza fisica sul palco, che riflette inevitabilmente il tempo che è passato. Dietro di noi Braccio di Ferro ha gli occhi lucidi. Quella musica lo riporta probabilmente indietro a chissà quale episodio di giovinezza… oppure si è solo ricordato di aver lasciato il gas acceso? Impossibile saperlo. Tarp sbircia inutilmente verso quel sacchetto di plastica che stringe gelosamente e che resterà un mistero.

Ben presto, i componenti della band iniziano a spartirsi il concerto, alternando assoli e improvvisazioni ai pezzi dell’ultimo album, “Now what?”, che non è niente male. Inizia il virtuoso chitarrista Steve Morse, che si trova a suo agio sia con la progressive, sia con la ambient, sia con l’heavy metal. Quando si ama la musica le distinzioni possono apparire ridicole. Poi è il turno del tastierista, Don Airey, con la sua camicia rubata dalla tappezzeria di qualche hotel fiorentino. Don è incontenibile, regala qualche minuto di improvvisazioni al sintetizzatore e trova il modo di infilarci nel mezzo anche un omaggio alla Turandot di Puccini. Il pubblico si è scaldato e si diverte, anche i matusa che affollano le tribune partecipano ballando e cantando: una signora con una sesta di reggiseno e una maglia attillata piena di lustrini rischia più volte di franare sotto i malcapitati sotto di lei. Faccio notare a Tarp che accanto a noi è comparso un altro ultrasessantenne entusiasta, con una camicia marrone dalla fantasia indefinibile e dei jeans Carrera modello 1985: si agita a occhi chiusi al ritmo della musica, ridendo beato. C’è un bel clima, rilassato e divertito, e quando il concerto riprende un binario più consueto, con gli ultimi pezzi bomba che mancano all’appello (“Smoke on the water”, “Black knights” e “Hush” su tutti), allora tutti, sbarbatelli e dirigenti d’azienda, verginelle e matrone, si stanno scatenando. Forse un po’ tardi, ma ognuno ha i suoi tempi.  Ci sono addirittura un paio di mancamenti alcolici sotto il palco, roba da poco. Prima dell’inizio del bis, Braccio di Ferro se ne va: non avrà davvero abboccato al solito finto saluto di commiato della band? Un altro mistero che resterà tale. All’uscita siamo soddisfatti. Incrociamo una coppia di ragazzi metallari, lei è incazzata nera e si sta lamentando di un ciccione che le ha impedito la vista per tutto il concerto. Mai contente, vero? Fuori dall’ingresso, butto un occhio al porchettodromo: è ancora tutto acceso. “Ma… una patata fritta?” dico a Tarp e mi pento nel momento stesso in cui pronuncio quelle parole: temo fortemente che quell’olio da motori turbodiesel mi perseguiti per la nottata. Comunque, finiamo le patate e continuare a commentare la varietà stupefacente di gente che c’è lì intorno. Poi Tarp fa a voce alta la domanda che sta aleggiando nell’aria dall’inizio della serata. “Ma noi… chissà come saremo noi fra trent’anni…” Bellissima domanda. Ma come diceva quel comico: beh, si è fatto tardi.


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