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Breeder (2020) - locandina

[38 Torino Film Festival] Breeder (Jens Dahl), la recensione

C’è sempre la menzogna dietro ai fatti che accadono in Breeder.

Una scienza medica che fa i passi più lunghi della gamba, mentendo a chi la finanzia, perché in realtà dietro c’è molto altro. Un marito (Anders Heinrichsen) che mente a sua moglie (Sara Hjort Ditlevsen) e che si fida troppo di chi gli mente. C’è in qualche modo la bugia dietro lo scatenarsi degli eventi, perché nessuna frottola dura in eterno.

La dottoressa Isabel Ruben (Signe Egholm Olsen) supera il limite. La cosa interessante è che lo fa per superare un problema personale irrisolto. La stessa sua ricerca sull’invecchiamento cellulare è in qualche modo un bluff, e i suoi scavallamenti del confine del lecito nascondono in realtà altro, una ricerca personale legata ad un’ossessione, il che rende la cosa ancora più orribile.

Ma il male torna sempre indietro al mittente, qui sotto forma di una vendetta collettiva carica di grida liberatorie piene di odio, rancore e disperazione. Perché qui si parla di donne sequestrate da una donna senza scrupoli e rispetto delle loro vite e dignità, aiutata da due personaggi sadici chiamati “Cane” (Morten Holst) e “Suino” (Jens Andersen). Una violenta vendetta tutta al femminile che farà risultare quella di “A prova di Morte” una sciocchezza. Perché qui il vero obiettivo finale della vendetta non è tanto il misogino e violento Cane ma la fredda calcolatrice e ricattatrice dottoressa Ruben.

La seconda parte del danese Breeder è davvero disperata e a tratti insostenibile, grazie al lavoro della sceneggiatrice Sissel Dalsgaard Thomsen e alla regia di Jens Dahl, ma si apre anche alla speranza, ad una rinascita che non sarebbe possibile senza la forza di lasciarsi per sempre alle spalle i problemi e le difficoltà che la vita ci presenta.

Il film è prodotto da Beo Starling, la stessa di Cutterhead.

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