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[EXTRA] I 40 anni di Non aprite quella porta di Tobe Hooper

C’è stato un momento in cui il cinema americano, un certo tipo di cinema americano, ha iniziato a farsi domande sulla propria nazione. Un cinema che iniziava a notare, e a denunciare, la bugia per tanto tempo detta dall’America che il male arrivasse da fuori i suoi territori.

Il pericolo, così dicevano, arrivava da lontano, preferibilmente dall’Unione Sovietica. La paura più grande era una invasione palese o peggio nascosta. La paranoia degli Stati Uniti che nei suoi territori si nascondessero spie di altri paesi, comunisti, viene raccontata dalla fantascienza in film come L’invasione degli ultracorpi dove l’alieno duplica gli umani nell’aspetto ma non il loro carattere, o come ne Il villaggio dei dannati in cui addirittura l’invasore ingravida le donne dando origine ad una nuova specie umana fatta con lo stesso stampo e, di nuovo, priva di sentimenti. In entrambi i casi, guarda caso, fatale fu l’addormentarsi.

Negli stessi anni, parliamo di un periodo a cavallo tra il 1950 e il 1960, accade però qualcosa che fa aprire gli occhi agli americani in maniera brutale. Nel 1957 viene arrestato Ed Gein, nel suo capanno la polizia trova il corpo decapitato di una donna scomparsa. Ulteriori perquisizioni portano alla luce particolari talmente orribili da superare ogni limite finora visto o immaginato. Di pazzi assassini nati e cresciuti in America come lui ce ne saranno altri, Gerard John Schaefer, Ted Bundy, John Wayne Gacy, Charles Manson, Donald Harvey, così come tanti già c’erano stati (come l’infermiera Jane Toppan o Henry Howard Holmes) ma furono prontamente rimossi dalla memoria collettiva.

Ed Gein però fu un caso che fece particolarmente scalpore. Il suo modus operandi, i suoi macabri trofei colpirono talmente tanto la nazione che non tardarono ad arrivare le rielaborazioni artistiche delle sue folli gesta. Robert Bloch pubblica nel 1959 Psycho, l’anno successivo esce l’adattamento di Alfred Hitchcock, Tobe Hooper poco meno di tre lustri dopo con Non aprite quella porta (The Texas Chain saw massacre) propone la sua versione di quella storia. Una versione completamente diversa rispetto a quella di Hitchcock ma con qualche punto in comune. Non più un timido, solitario e schizofrenico proprietario di hotel ma un’intera famiglia di Ed Gein il cui passatempo preferito è uccidere chiunque violi la loro proprietà. E qui veniamo al punto in comune che il film di Hooper ha con quello di Hitchcock: la violazione di domicilio. L’invasore, che prima era visto come il carnefice che arrivava per fare i suoi porci comodi, diventa vittima nel momento in cui mette piede nella proprietà sbagliata.

Un concetto che in quegli anni, più o meno, troviamo anche in altri film non ispirati agli omicidi di Gein come Le colline hanno gli occhiVenerdì 13.

Non aprite quella porta quando esce nella sale americane il 4 ottobre del 1974 assesta un pugno nello stomaco difficile da dimenticare. Forse anche perché nel film non sono mostrati insistentemente sangue e squartamenti. Probabilmente per motivi di budget, le violenze palesemente mostrate sono poche preferendo lasciare spazio a quelle fuori dalla cornice dell’inquadratura, o risolte/suggerite in altro modo come nel caso della famosa scena del gancio. Per raggiungere il suo scopo disturbante sfrutta tutti gli strumenti base del cinema: un montaggio spesso non convenzionale, un uso del sonoro sempre attento, una recitazione sopra le righe, un approccio spesso grottesco nel raccontare l’orrore. Di tanti film di quel periodo che raccontavano di mostri americani, pensiamo anche a L’ultima casa a sinistra , Non aprite quella porta è quello più sporco, puzzolente (persino più di Pink Flamingos), eccessivo. Ci sembra di sentirlo il cattivo odore di quella casa. Marilyn Burns (scomparsa il 5 agosto di quest’anno) e la sua combriccola di giovani hippie passano dal sogno (americano) all’incubo della realtà.

Giovani e spensierati morti ammazzati li ritroviamo anche in un altro cult di quel periodo, ancora una volta vittime di un mostro made in USA. E sto parlando di Halloween di John Carpenter con la figura di Michael Myers che incarna, sono parole del regista, il concetto di male in sé.

Grazie a questo periodo sono emersi registi importanti, ai loro esordi piuttosto arrabbiati e nichilisti (la pistolettata in faccia alla bambina in Distretto 13 le brigate della morte non si può dimenticare così come la fine all’ultimo secondo del protagonista di La notte dei morti viventi), oggi sottotono, se non addirittura scomparsi dopo essere stati fagocitati dal sistema Hollywood, solo in pochi ancora capaci di colpirci senza troppi complimenti.

Oggi questa capacità di critica e di analisi della società americana è quasi scomparsa nel cinema di genere, però due buoni esempi sono usciti a poca distanza l’uno dall’altro nel 2009: Drag me to hell di Sam Raimi e The Box di Richard Kelly ci hanno ricordato come la crisi finanziaria possa generare mostri. Più recentemente ci hanno provato Daniel Stamm con 13 signs e Rama Moosley con Botte di fortuna, peccato però che l’approccio sia da e vissero felici e contenti, soprattutto il secondo. Il resto è quasi esclusivamente monopolio di reboot di remake e cinecomix multimilionari. Tristezza infinita.

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