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[RECENSIONE] In Time (Andrew Niccol)

C’è tutto sommato un certo equilibrio tra la parte action e quella politica di In time. L’idea di base è molto buona: nel futuro viene sconfitta la vecchiaia, tutti si fermano a venticinque anni ma il tempo da vivere, potenzialmente eterno, è un lusso che non tutti si possono permettere. Il tempo che rimane è impresso in una specie di tatuaggio luminoso che tutti hanno sull’avambraccio. Il tempo diventa la sola valuta corrente, per telefonare devi dare un minuto del tuo tempo, per andare sull’autobus due ore e via discorrendo.

I ricchi da una parte i poveri dall’altra, la solita storia distopica che racconta un mondo uguale al nostro presente se non fosse per un piccolo particolare macroscopico. I poveri come Will Salas (Justin Timberlake) per poter continuare ad esistere devono vivere alla giornata: alzarsi presto la mattina per lavorare in cambio di poche ore di vita, arrangiarsi in mille modi, soprattutto correre correre correre. Fino a quando Will non incontra un tizio abbiente che non ne può più di vivere e prima di suicidarsi gli regala oltre un secolo di vita e lo porta a conoscenza del terribile divario che esiste tra classi sociali perché, tanto per cambiare, i ricchi hanno rubato ai poveri e vivono in quartieri isolati irraggiungibili per chi vive nei ghetti come Will.

Presa coscienza dell’ingiustizia rapisce la figlia del riccone Weis (Jesse Lee Soffer), che ha in cassaforte un milione di anni. Sylvia (Amanda Seyfried) all’inizio spaventata si fa prendere la mano sempre più, ci prende gusto a maneggiare pistole e a rubare al padre il tempo che egli a sua volta ha rubato a tutti quei poveracci che vivono nei quartieri poveri. Will e Sylvia diventano una specia di Bonnie e Clide pronti a tutto pur di ridare equità al mondo. Sulle loro tracce si mette l’agente Leon (Cillian Murphy) una specie di finanziere incaricato di vedere chi ha più tempo del dovuto illegalmente.

Ecco, la parte puramente ludica, fatta di inseguimenti, sparatorie, conti alla rovescia funziona piuttosto bene così come la parte impegnata quella cioè in cui esce fuori l’aspetto politico, arrabbiato e se vogliamo anche nichilista del film. Quello che non convince è l’unione tra questi due mondi, l’incontro tra poveri e ricchi desinato, sembrerebbe, a cambiare il mondo. Sylvia di punto in bianco passa dalla parte di Will, d’accordo che c’era attrazione tra i due ancor prima che il ragazzo decidesse di rapirla, va bene l’iniziale ostilità della ragazza che non ci sta a passare da un momento a un altro da uno status a un altro, cosa che accade esattamente al contrario a Will che vince al tavolo di gioco del padre di lei oltre un secolo di vita.

È la presa di coscienza di entrambi i protagonisti a non convincere, ok, lui perde la madre il giorno del suo compleanno e la cosa gli fa girare le palle quanto basta, ma lei? Quando capisce l’ingiustizia che il padre contribuisce a proliferare? In che momento vediamo il classico primo piano a stringere sulla protagonista? Cos’è la sua? Una semplice ribellione ai genitori? A parte questi interrogativi che possono essere anche dovuti ad una scarsa attenzione da parte mia, probabilmente è così, il film, lo ripeto, funziona piuttosto bene anche se il finale lascia veramente poco spazio all’immaginazione. La coppia Clyde-Bonnie va avanti per la sua strada che è quella di riportare giustizia nel mondo e nessuno riuscirà a fermarli.

Va bene, forse Andrew Niccol ci vuole dire che l’unione fa la forza. Oppure che i ricchi (che volevano tutto per sé, con la scusa che è meglio così, che è meglio cioè che i poveri muoiano per non dare loro sofferenze e preoccupazioni) si ritroveranno una mazza da baseball nel culo, tanto per citare Mister Pink, ché per loro la pacchia è finita. C’è un messaggio anticapitalista, senza dubbio, e il fatto che In time sia un film hollywoodiano lascia trapelare evidente una contraddizione grossa come l’Everest. Forse questo sarebbe da approfondire. Se si fa in tempo.

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