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[RECENSIONE] Necropolis – La Città dei Morti (John Erick Dowdle)

Sopra e Sotto la Necropoli.

Il fuorviante titolo italiano Necropolis – La città dei Morti perde molto quella che sarebbe una delle importanti chiavi di lettura del film: L’Alchimia.

As Above, so Below (come sopra, così sotto) è uno dei motti alchemici ricorrenti nel film del 2014 di John Erick Dowdle, una produzione USA/FRANCIA che regala al panorama dell’horror moderno belle sorprese, ed una iniezione di qualità all’interno del mockumentary.

La caratteristica principale di questo tipo di film è la verosimiglianza, e la scelta del cast è vincente: da Perdita Weeks (già vista nel’Amleto di Branagh), perfettamente in parte seppure fin troppo ricca di doti per essere vera, a Ben Feldman… un volto non nuovo all’horror, ma che fu anche candidato agli Emmy per la serie Mad Man.

Una regia ricca di punti di vista, di montaggio serrato ma non frenetico e non caotico, che assolutamente non svia mai il POV (Point Of View) come fanno in produzioni minori, ma anzi mostra sempre anche ciò che non dovrebbe esser mostrato… in questo caso generando il disturbante effetto di essere in un posto dove le cose che non vanno son molte di più di quelle che son manifeste.

In parole povere, l’alchimia è quel complesso di conoscenze pratiche (metallurgiche, farmaceutiche, ecc.), filosofiche ed esoteriche che, sviluppatosi nel mondo arabo e in Europa nel Medioevo, propugnò, tra l’altro, la trasmutabilità dei metalli vili in oro; la sua fine si colloca al termine del Rinascimento, con il sorgere del metodo sperimentale nelle scienze e il declino delle pratiche magiche.

I riferimenti ad essa nel film son esatti, ma la poca diffusione della conoscenza in merito alla materia, potrebbe rendere il film un po’ troppo criptico per i più. Non è nemmeno un caso che nel finale, i protagonisti si trovino fuori i pressi di Notre Dame de Paris, ed i collegamenti col libro di Fulcanelli Il Mistero delle Cattedrali si amplificano.

As Above, so Below altro non è che un viaggio alchemico alla ricerca della pietra filosofale, che gli studiosi han sempre paragonato alla ricerca di se stessi.

Scarlett Marlowe è un’archeologa alla ricerca della pietra filosofale di Flamel, ossessione trasmessale dal padre, studioso morto suicida e che ha cercato la pietra per tutta la vita. Per trovarla si avventura prima in un sotterraneo in Iran, dove trova la chiave rossa, e poi, accompagnata da una squadra, s’inoltra nella zona proibita delle catacombe di Parigi. Attraversarle non è però semplice quanto si era immaginato, e sul cammino si presentano numerose insidie. Il gruppo riesce a trovare quella che dovrebbe essere la pietra filosofale, ma a un certo punto si ritrova ad addentrarsi in quello che sembra a tutti gli effetti l’Inferno.

Il film è stato girato nelle catacombe di Parigi, grazie a uno speciale permesso rilasciato dalle autorità francesi. È stato il primo film ad avere tale autorizzazione. Realizzato con un budget di 5 milioni di dollari, ne ha incassati complessivamente oltre 40… eppure le critiche non son state positive all’uscita del film, che sta guadagnandosi invece col tempo ed il passaparola, un posto tutto suo. Del resto, la critica spocchiosa, composta da gente che crede sempre di sapere tutto, e poi non sa nulla, è la vera piaga del cinema horror, piaga peggiore dei film brutti. Alcuni han trovato inverosimili le fusioni di diverse mitologie, di fatto crocifiggendosi da soli coi chiodi della loro incapacità di una semplice ricerca google…

Altri han cercato di spiegare al pubblico il senso del film, che loro stessi han mancato. La chiave del film è molto semplice e l’alchimia è difatto una scienza così ricca, contaminata e “baraccona” da non sembrare plausibile se non la si è studiata. In passato si aveva fortunatamente fantasia e curiosità molto sfrenate, cosa che molti critici dovrebbero imparare a rispolverare o contattare.

Molto bello e serrato l’inizio ambientato in Iran, una avventura di 10 minuti alla Indiana Jones, ma realizzata solo con un paio di gallerie, un bus e 2 attori: la dimostrazione che se si sa girare, lo si fa anche con niente.

La pietra filosofale quindi serve a:

  1. Realizzare l’elisir di lunga vita, capace di donare l’immortalità. La pietra filosofale nell’immaginario comune può curare qualsiasi malattia.
  2. Dona la conoscenza di tutto, aiuta a sollevare il velo illusorio che separa il bene dal male. Non a caso si parla di pietra dei filosofi.
  3. Tramuta i metalli vili in oro. E qui ecco che l’avidità delle persone spunta fuori.

Questi tre “poteri” sono in realtà collegati. Pensateci. L’oro è ad oggi considerato un metallo simbolo d’immortalità. Basta pensate ai sarcofagi dei faraoni egizi costruiti in oro. Secondo gli alchimisti, riuscire a produrlo partendo da un metallo vile, permetteva anche di capire come raggiungere l’immortalità. Allo stesso tempo però, essendo l’oro simbolo di luce eterna, insegna anche a trasformare la materialità in spiritualità e conoscenza divina. Una trinità di poteri strettamente legata.

In molti tendono a vedere la figura dell’alchimista come quella di un uomo privo di scrupoli e avido, proprio per il suo tentativo di ottenere la pietra filosofale. La realtà è che l’alchimista per riuscire nell’opera doveva aver raggiunto un livello di moralità molto alto, cosa che dopo gli impediva di usare la conoscenza per motivi egoistici.

Buona Visione dalla vostra Masina…

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